All’età di 23 anni decisi di lasciare un lavoro all’interno di una multinazionale, che mi dava molti benefits materiali ma che stava spegnendo la mia capacità di sognare.
Lavoravo a Roma, vivevo a San Giovanni, vicino al Colosseo. Avevo un lavoro che riconosco essere stato di grande valore e per il quale sono tutt’oggi molto grata per avermi insegnato a riconoscere il senso di tristezza atavica, quella nostalgia con la quale mi svegliavo e andavo a letto tutti i giorni. Quella certezza profonda di non essere al mio posto e, su un livello esistenziale, quella sensazione netta del non sapere cosa ci stessi facendo io, qui, in questa vita.
Così me ne andai. Me ne andai da quella vita, me ne andai da quella me che non mi piaceva, me ne andai dalle persone che non mi facevano stare bene. Tagliai con un colpo secco un pezzo di vita che avevo deciso di non volere più. Se vivere bene, stare bene materialmente ed economicamente significava stare in quell’inferno, dentro, io ero pronta a lasciare tutto. A perdere tutto.
Ha funzionato per la ‘me’ di 20 anni fa e non significa che funzioni per tutti, inclusa la me di oggi. Per la Francesca che c’è qui, ora, un taglio netto non sarebbe più la soluzione. Ma la Franceschina di allora non avrebbe saputo fare diversamente e non sarebbe stata disposta ad ascoltare nessuno, nemmeno le sue ‘paure guardiane’.
Mi immersi nella meditazione. Ricordo che passai un intero anno sabbatico a meditare. Meditavo e meditavo. Frequentavo gruppi di crescita personale dove insegnavano la meditazione, vivevo in Liguria, immersa nella natura, con il mare di fronte ai miei occhi. Tutte le mattine mi svegliavo e tutte le sere mi addormentavo e al posto della tristezza c’era lui, il Mare.
Non è stato affatto semplice: mollare tutto per meditare in quegli anni era una scelta da ‘scellerati’. Ricordo ancora alcuni commenti di persone care che non approvando la mia scelta e percependo di non poter trovare spazio per un sano confronto con me, giudicavano probabilmente spaventati anche loro da questo mio cambio di rotta. La domanda che non aveva risposta (né per me né per loro) era: ma dove mi sta portando tutto questo? Dove sto andando?
Non ne avevo la più pallida idea.
Tutto quello che sapevo è che non volevo più stare così male. Quel malessere esistenziale che a mio avviso era senza senso, non volevo più provarlo. In verità, mi è servito per togliermi da un posto che non era il mio, da un’etichetta che mi ero appiccicata addosso seguendo chissà quale convinzione, da un’immagine di me che non corrispondeva affatto a verità. Mi è servito, quel dolore esistenziale, per iniziare il mio viaggio da tutto ciò che era finto verso qualcosa di autentico.
Meditare era inizialmente una fuga. Uno spazio in cui mi ero creata l’illusione di non dover affrontare tutti i miei Demoni interiori. Uno spazio in cui avevo trasferito la finzione esterna nella finzione interna. Uno spazio edulcorato, in cui mi isolavo e me la raccontavo. Nessuno poteva entrare in quello spazio e nessuno poteva permettersi di dirmi niente. Nessuno sarebbe stato all’altezza di capire veramente quello che stavo provando. Eh si, inizialmente la meditazione ha rinforzato quegli stessi demoni dai quali tentavo di fuggire. E così, piano piano e a mie spese, mi resi conto che si può fuggire da un posto, ci si può spostare fisicamente da alcune persone, ma non si può mai fuggire da se stessi.
All’epoca la meditazione non era conosciuta né praticata come oggi: c’erano pochi mentori capaci di trasmettere l’essenza della meditazione. Inutile dire che all’inizio serva qualcuno che accompagni, con la propria esperienza ma anche con una buona competenza nella tecnica, con la presenza acquisita negli anni, con tutto ciò che nel tempo ha sviluppato dentro sé proprio attraverso le ore di meditazione esperite. Chi tiene il campo all’interno di un gruppo di persone che medita, deve necessariamente averla praticata e praticarla. Aver conosciuto tutti i trucchetti e i tranelli, esserci caduto, esserne uscito, saperli riconoscere e aiutare gli altri, accompagnandoli con grazia amorevole, a seguire i passaggi che la saggezza interna di ognuno propone. Tenere il campo in meditazione significa prima di tutto Presenza. E la Presenza è qualcosa che nella mia esperienza, è arrivata in modo forte e chiaro dopo ogni volta che l’ho persa. Oh si…quante volte ti ho persa amata Presenza! E benedico ogni singola volta, perché dopo ogni momento di perdita arrivava una consapevolezza che mai mi sarei aspettata. Ma c’è da dire che non mi muovevo. Ad un certo punto, dopo aver riconosciuto i miei tranelli, sono rimasta lì, a guardare i miei Demoni, uno ad uno. Più diventava impegnativo e più io dicevo a me stessa “non importa quanto difficile sia, io da qui non mi muovo” e restavo con gli occhi chiusi, seduta, ore e ore ad osservare il mio respiro e la mia mente che mi portava talmente in basso da poterlo sentire con le mie narici, l’odore dello zolfo.
Ho vissuto meditazioni in cui le lacrime bagnavano le mie guance mentre io rimanevo immobile. Meditazioni in cui il fuoco vulcanico della rabbia esplodeva in me, e io restavo immobile. Meditazioni in cui la tristezza ancestrale mi portava in posti bui e oscuri, e io rimanevo immobile.
E’ durato decenni. Non settimane, non mesi. Decenni.
Una delle mie caratteristiche è la determinazione. Sapevo che meditare mi faceva bene, che mi stava aprendo ad una relazione con me stessa che nessun’ uomo, nessuna donna, nessun lavoro mi avrebbe mai dato. E così, continuai.
Mi innamorai di me tutte le volte che mi sedevo in meditazione: iniziai ad amare me stessa, i miei Demoni, tutte le persone della mia vita, i miei errori, i miei successi, le mie scelte. Iniziai a sentire che ciò che avevo deciso per la mia vita non era poi così sbagliato. Iniziai a sentire la mia vocazione, quella vera, quella che è sempre stata in me, dal momento in cui sono nata. Fino a che ad un certo punto, iniziai a sentire il volo dell’aquila, in me. Libertà interiore.
Decisi di studiare, di laurearmi con una tesi dal titolo “Mindfulness: sviluppo dell’intelligenza emotiva al servizio del paziente”. Sentivo che era un ottimo riconoscimento verso me stessa e un buon modo di onorare tutto quello che la meditazione aveva portato nella mia vita.
Oggi, tengo gruppi di meditazione, on line ed in presenza. Tutte le persone che lavorano con me, prima o poi, incontrano anche questo approccio al lavoro con se stessi: la meditazione. E’ qualcosa che propongo perché è qualcosa in cui credo, un beneficio che ho sperimentato e sto sperimentando tutt’ora. Spesso mi sento dire che è difficile, che è complicato.
Sorrido, e rispondo “si, lo è”. Sorrido perché le cose più semplici, per noi esseri umani, sono in verità le più complesse. Non siamo più abituati alla semplicità. Sedersi ad osservare il respiro, l’aria che entra e l’aria che esce dalle narici, può essere un’esperienza tanto infernale quanto paradisiaca. In entrambi i casi, si vede ciò che c’è. Il che significa che si inizia a dare attenzione a quello che già vive in noi. E questo, spesso è scomodo. Fermarmi e rendermi conto del casino che c’è in me è molto scomodo. E’ come se avessimo una casa, nella quale non ci fermiamo mai veramente. Usciamo, viaggiamo, mangiamo sempre fuori. Non ce ne prendiamo cura ma non ci accorgiamo che necessita di attenzioni perché non ci viviamo. Improvvisamente, decidiamo di fermarci qualche giorno e ci rendiamo conto che la nostra casa è disordinata e sporca. Non ci avevamo mai fatto caso fino a quel momento. Non ci piace questa cosa.
Ecco, immaginiamo che la casa sia il nostro sistema corpo-mente e la parte che sceglie di fermarsi sia la nostra consapevolezza, quella che ad un certo punto dice “stop!”.
Immaginiamo ora che anziché scegliere di fermarci, improvvisamente siamo costretti a farlo. Un’influenza o una frattura ad una gamba. Costretti a stare fermi immobili in una casa che non riconosciamo perché manca di cure e attenzioni da sempre. Che effetto pensate ci farebbe?
Durante questa pandemia Covid-19, il numero di persone che hanno scelto di iniziare a meditare con regolarità è aumentato di molto. Questo a mio avviso è un buon segno: è vero che il ‘fermo’ è stato forzato, è vero che alcune persone erano più pronte di altre a questo isolamento ma è anche vero che questa situazione per molti ha aperto a nuove possibilità.
Incontrare la Meditazione è incontrare la Medicina per eccellenza, è come ricevere una benedizione che resterà con te per sempre: nessuno potrà mai toglierti ciò che vive e cresce dentro di te. Ovunque tu sarai, in qualunque circostanza ti troverai, lo spazio della meditazione sarà accessibile a te.
E, una cosa che spesso mi ripeto è questa: per meditare, bisogna stare bene, serve che i nostri bisogni primari siano soddisfatti. Per cui per me poter scegliere di meditare è un privilegio che questa vita mi ha dato: sto talmente bene, che posso concedermi il lusso di usufruire della Medicina per eccellenza, quella che cura corpo, mente e Anima.
Francesca Tamai
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